Conte ha rotto l’incantesimo: se su ogni riforma partiti s’impuntano, la folgore Draghi diventa fuochino

Avevamo promesso alla nascita del governo Draghi che avremmo monitorato nel tempo come e se avrebbe davvero esercitato sui partiti la presa fantastica che si era manifestata all’inizio, nella fiducia e nella riscrittura a tambur battente delle prime 80 pagine del PNRR. Ed eccoci qui. E’ bastato l’inizio del semestre bianco, cioè la fine della possibile minaccia di elezioni anticipate in caso di crisi, e le crepe improvvisamente si vedono tutte.

E che crepe, è il caso di dire. Nelle ultime quattro settimane il ritardo della riforma della giustizia ha iniziato a ingolfare per intero l’intero cronopogramma annunciato degli interventi necessari per avviare sui binari promessi il PNRR. E così abbiamo già rinviato a settembre, o meglio alla prossima legge di bilancio:

– la legge delega per la riforma fiscale (non solo mancano le coperture per una riforma incisiva e si rischia una mera riformetta dell’aliquota IRPEF che scatta al 38% sopra i 28mila euro: sul resto i partiti difendono tutti da destra a sinistra i bonus che hanno introdotto negli anni, e che hanno sfigurato il sistema fiscale);

– il tanto atteso (da noi 4 gatti che tifiamo mercato) disegno di legge sulla concorrenza (oltre che rinviato, ha già cominciato a perdere pezzi: i partiti non ci pensano proprio a misure decise sui servizi pubblici a gara non più in house, né a una scelta radicale a favore di gare pubbliche senza ampi margini di trattativa diretta e discrezionale, e lasciam perdere poi la durata delle concessioni pubbliche sin qui protratte in tempi biblici per non perder voti…)

– la riforma dell’ammortizzatore sociale da sostituire al sistema CIG e delle politiche attive del lavoro (che dovevano essere avviate già a primavera 2020 quando si dispose il divieto per legge dei licenziamenti, in modo che le misure attuative potessero già scattare da quest’anno: e qui i partiti e sindacati puntano i piedi, vogliono un ammortizzatore universale ma senza dire che allora bisogna che vi contribuiscano anche settori d’impresa che oggi pagano invece pochissimo, non vogliono affatto superare la CIG che si applica in costanza dei rapporti di lavoro e impedisce formazione-rioccupabilità, difendono il mantra per cui le politiche attive le devono fare soprattutto i Centri Pubblici per l’Impiego che sono inefficientissimi ma a cui ora andranno i 4 mld stanziati dal PNRR, senza invece svoltare verso un sistema di pari dignità nell’accreditamento di CPI e APL private, basato sul misurare le risorse attribuite secondo risultati concreti raggiunti di rioccupabilità dei lavoratori)

-e come avete visto, sono state rinviate anche le norme annunciate sull’estensione del greenpass nei trasporti pubblici, nella scuola e sui posti di lavoro…

La costante di tutti questi slittamenti è l’eterogeneità della maggioranza, il fatto che i partiti hanno levato progressivamente e rapidamente la testa rispetto alla scorsa primavera.

Ma la vera svolta è stata quella del ritorno di Conte sulla scena. Non mi riferisco alla penosa commedia Conte-Grillo, visto che tanto Grillo resta anche nel nuovo non-statuto l’unico interprete delle regole del movimento, e che in ogni caso il neoleader politico Conte non è nemmeno ancora stato eletto (una pantomima senza fine, rispetto al preteso rinnovamento della politica su basi nuove). Il vero effetto Conte l’ha esercitato sul governo. Perché ha mantenuto fede a ciò che aveva promesso: torno per dimostrare a Draghi che s’illude si crede di poter rifare da capo tutto lui. Conte se n’è fregato che i ministri Cinque Stelle avessero all’unanimità votato in Consiglio dei Ministri il testo della riforma Cartabia. Li ha costretti a dire che in aula non lo avrebbero invece votato. Ha ottenuto che il Pd – fedele anche con Letta alla linea che l’intesa coi 5S è l’asse strategico per l’oggi e per il domani, a qualunque costo – appoggiasse il ribaltone Cinque Stelle. Draghi ha creduto di vincere facendosi autorizzare a mettere la fiducia in aula sul testo uscito dal Consiglio dei Ministri. Ma ha dovuto subito fermarsi: perché in aula avrebbe perso un pezzo non trascurabile della maggioranza, cioè il maggior partito presente in Parlamento. Che magari si sarebbe spaccato, come no, ma intanto il governo avrebbe iniziato a perder sangue…

E così è nata la trattativa che ha visto di nuovo i 5S votare in Consiglio dei Ministri una riforma, ma questa volta diversa. Ora diranno molti che alla fine Draghi ha fatto bene e ha ceduto poco, mica si torna alla manettara riforma Bonafede del “fine processo mai”. Io preferisco evitare ottimismi di circostanza. Se andiamo al merito delle modifiche ottenute dai 5S, i tempi sono significativamente diversi da quelli previsti dal testo Cartabia per secondo e terzo grado di giudizio: fino a sei anni in appello, per i processi per delitti con aggravante mafiosa (non solo quelli per cui la pena era fino all’ergastolo) nella fase transitoria di entrata in vigore della nuova prescrizione, fino al 2024. Ma con la possibilità realistica comunque che per quei reati la deroga resti anche dopo: perché procedimenti ai quali i magistrati appiopperano tali fattispecie anche magari proprio per darsi più tempo, e che nel 2024 non rientreranno certo nei tempi ordinari previsti , otterranno di sicuro a quel punto con vasta campagna di partiti giustizialisti e ANM la deroga permanente … E vedremo in Parlamento se poi davvero passa questo testo con la fiducia, o se ogni partito ci mette sin d’ora di suo qualche altra ipotesi di “grave reato sociale” per allungare la lista delle deroghe, problema che sicuramente si porrà a quel punto anche nel 2024, ci scommetto quel che volete.

Il punto non è solo quello di merito, che lascio ai giuristi. Il punto è che Conte è riuscito a dimostrare quel che voleva: finito il semestre bianco, Draghi deve togliersi dalla testa di continuare a ignorare quel che per i partiti è invece fondamentale, perché basta che i partiti puntino i pedi ed ecco che Draghi è costretto a trattare e accettare. Nessuna riforma tassativa, ma subito minata da deroghe. Nessuna riforma di vera discontinuità con ciò che i partiti hanno fatto per anni: perché non c’è tema sul quale un partito o l’altro non sia disposto a battersi per difendere ciò che di ben diverso ha fatto governando, ora che i Cinque Stelle di Conte hanno aperto la strada e mostrato che Draghi è costretto a far buon viso a cattivo gioco.

Ecco, sulla giustizia si è giocata una partita politica più ampia del giusto processo, che per Costituzione dovrebbe essere a tempi brevi senza fermarsi all’ostacolo che ai magistrati i tempi brevi non piacciono. Una partita che ha incrinato l’aura sin qui intatta del Draghi “decisionista”. Per antica esperienza, nel sistema dei partiti quando un premier inizia a mostrarsi esposto alle banderillas, scatta una progressione inevitabile. E dal tercio de banderillas si passa presto o tardi al tercio de muleta, l’ultima parte della corrida che porta il toro alla stoccata finale. Non voglio fare il menagramo. Ma i tempi ristrettissimi della molteplicità di interventi per avviare il PNRR, e la radicale discontinuità che molti di essi dovrebbero rappresentare, sembrano proprio fare a pugni con quanto abbiamo visto nelle ultime settimane. Ci pensi, Draghi, non si lasci imbonire dai tanti aedi che le suonano l’organo: molti di loro sono organisti che suonano per ogni governo.

Oscar Giannino

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