3 thoughts on “Hanno ucciso il patent box – S2E13”

  1. Buongiorno.
    Ho ascoltato il podcast, letto l’articolo di Oscar su Affari & Finanza di La Repubblica e anche ascoltato il presidente di Confindustria, Bonomi, che lamentava l’abolizione del Patent box.
    Poi mi capita l’articolo sul Il Fatto Quotidiano dell’ 8 novembre 2021 a firma Tommaso Faccio e Andrea Roventini che copio qui sotto:

    [ L’abolizione del Patent Box, un passo nella giusta direzione

    Introdotto nel 2015 per spingere ricerca e sviluppo, ha finito (come ovunque) per favorire poche grandi imprese con soldi pubblici: ora puntiamo sull’open science

    Fu introdotto in Europa la prima volta negli Anni 70 dall’irlanda, uno dei paradisi fiscali Ue: si tratta di un meccanismo che permette la tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali (software, brevetti industriali, di disegni e modelli). Una misura che si è diffusa a macchia di leopardo in Europa con aliquote che vanno dal 2% di Malta (a non considerare lo 0% di San Marino) al 13,95% italiano (da noi la misura fa escludere dalla base imponibile il 50% dei redditi).

    Se a introdurlo a inizio anni 70 fu l’irlanda, paradiso fiscale europeo, l’italia sarà invece il primo paese ad abolire il Patent Box, un incentivo che permette la tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali (software, brevetti industriali di disegni e modelli). Una misura che si è diffusa a macchia di leopardo in Europa con aliquote che variano dal 2% di Malta al 13,95% italiano (la misura consente di escludere dalla base imponibile il 50% dei redditi) permettendo così alle multinazionali di spostare i propri beni immateriali – e relativi redditi – dove fiscalmente più conveniente. Le conseguenze negative delle pratiche di ottimizzazione fiscale aggressiva sono molteplici: nell’ambito delle attività di impresa alterano la concorrenza e favoriscono la polarizzazione e la concentrazione; sul piano sociale erodono la fiducia dei contribuenti nel settore pubblico, scoraggiando il consenso popolare nei confronti del sistema di contribuzione fiscale e del contrasto all’evasione.

    In Italia il Patent Box è stato introdotto nel 2015 col duplice obiettivo di incentivare il collocamento di beni immateriali in Italia e di favorire l’investimento in attività di ricerca e sviluppo. Ma per beneficiare dell’aliquota preferenziale non serve incrementare i costi di ricerca e sviluppo e ad oggi non ci sono dati pubblici sull’efficacia di questa misura in relazione ai due obiettivi, mentre il costo per le casse dello Stato non è indifferente: minori entrate per 1,6 miliardi nel solo 2019. Il beneficio, peraltro, è molto concentrato in poche grandi imprese: si pensi che nel 2017 a beneficiare di questa agevolazione sono state circa 1.300 imprese, di cui 1.200 società di capitale (sulle oltre 800.000 attive in quell’anno). Risulta poi molto alta la concentrazione degli importi sia su un piano dimensionale che territoriale: l’8,3% delle imprese beneficiarie, che ha ricavi superiori a 250 milioni, ha usato il 63% del reddito detassato. I dati sono ancora più scoraggianti se si considera che la ricerca e sviluppo delle imprese italiane è stabilmente tra le più basse nell’ue. Ora il governo si appresta a sostituirlo con un nuovo regime legato non più ai redditi, ma ai costi effettivi di ricerca e sviluppo sostenuti, incrementando del 90% l’importo deducibile delle spese di ricerca e sviluppo relative ai beni immateriali. È una misura che va nella giusta direzione.

    Studi recenti mostrano infatti che l’aumento della protezione brevettuale non incentiva le imprese ad aumentare gli sforzi in ricerca. Ciò è specialmente vero in settori come l’industria farmaceutica, nei quali la protezione della proprietà intellettuale è uno strumento di creazione di formidabili rendite monopolistiche. Certamente maggiori protezioni tendono ad indurre un aumento dei brevetti, ma questi non rappresentano un maggiore numero di innovazioni, ma solo maggiori “cinture protettive” attorno a tecnologie proprietarie. Le imprese tendono infatti a creare grandi portafogli di brevetti per contrastare i concorrenti con la minaccia di azioni legali, frenando così l’innovazione. I Patent Box peggiorano la situazione, perché premiano le rendite monopolistiche associate ai diritti di proprietà intellettuale rendendoli quasi esentasse. La strada da intraprendere è quella opposta: aumentare i campi esplorativi soggetti a “open science”, i cui risultati possono essere sfruttati dalle imprese che, in caso di successo, saranno normalmente tassate. Se il settore pubblico contribuisce al finanziamento di questa ricerca, dovrà essere ricompensato con una quota dei profitti generati. Infine, le risorse risparmiate dal Patent Box potrebbero essere utilizzate per finanziare la ricerca pubblica, dove purtroppo l’italia è agli ultimi posti in Europa.
    Oltre che il superamento di una spesa inefficiente, l’abolizione del Patent Box ha anche un significato simbolico. L’italia è la prima grande economia ad abbandonare questo strumento di concorrenza fiscale tra Paesi: un segno della sua efficacia nello stimolare investimenti, ma anche della dannosità della concorrenza fiscale, una gara in cui nessun grande paese può vincere. L’accordo del G20 a Roma introduce per la prima volta un’aliquota globale effettiva minima sui profitti delle multinazionali (al 15%, bassa rispetto alla nostra Ires del 24%) dimostrando così la necessità di assicurarsi che anche i grandi gruppi, che hanno registrato in quest’ultimo periodo una significativa moltiplicazione degli utili, contribuiscano per la loro parte alla ripresa post pandemica. Spetta ora al Parlamento approvare questa misura di giustizia fiscale, ignorando le sirene di chi vuol mantenere misure a privilegio di poche imprese.]

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