Basta prepensionare. I numeri dicono che si deve tornare alla Fornero, in nome dei giovani

È iniziato al ministero del Lavoro il confronto con i sindacati -solo con i sindacati, chissà poi perché visto che i contributi li pagano in maniera maggiore le imprese – su cosa sostituire a Quota100 il cui regime di vantaggio cessa a fine anno.

Parliamo innanzitutto di quanto è costata Quota 100. e l’insieme delle misure di prepensionamento. La stima governo Lega-5s che lo varò indicava una platea di oltre 500mila italiani, con oltre 20 miliardi di costo a breve nel triennio e un impatto a lungo termine sul debito INPS che Tito Boeri, che fu sostituito alla presidenza, valutò dai 38 ai 90 miliardi, a seconda di quanti l’avessero richiesta. Gli ultimi dati INPS ci dicono che il prepensionamento l’hanno ottenuto in 3 anni 180 mila uomini e 73 mila donne, per oltre la metà dipendenti pubblici, comunque molto molto meno di quanto leghisti e pentastellati stimassero. La penalizzazione dell’assegno prevista per i prepensionati ne ha scoraggiati molti. Con un onere a breve di 12 miliardi circa, e un impatto pluriennale sul debito intorno ai 45 miliardi. Ma ci dicono un’altra cosa a cui pochissimi fanno caso. In realtà dal 2019 a oggi di quei 250 mila prepensionati rispetto ai requisiti fissati dalla legge Fornero, neanche un terzo ricade esattamente in Quota 100, cioè con 62 anni di età e 38 di contributi.

Tutto il resto viene dalle numerose altre forme di prepensionamento che sono fiorite in questi anni, prima di Quota 100 e confermate o estese. Si può andare in pensione prima dei 67 anni di età previsti dalla legge Fornero, per chi ha 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (41 anni e 10 mesi per le donne). Lo si può fare con la cosiddetta “isopensione”, che consente un anticipo fino a un massimo di 4 anni ( e 7 anni fino al 2023), con costi e contributi figurativi interamente a carico delle aziende con più di 15 dipendenti. Si può anticipare di 5 anni la pensione in caso di contratti di espansione, che prevedono una forma di ricambio generazionale con oneri totalmente a carico delle imprese oltre i 250 dipendenti. Analoga cosa si può fare grazie ai protocolli imprese-sindacati e ai fondi di solidarietà di categoria attivi per banche, assicurazioni, industria farmaceutica. E in questi casi l’anzianità contributiva richiesta è ancora inferiore ai 38 anni di Quota100. E c’è “l’opzione donna”: in pensione a 58 anni di età o 59 per le autonome, all’accumulo di 35 anni di contributi.

Siccome Quota100 scade a fine anno ma di tutti questi regimi speciali sembra non si parli se non per confermarli, il segnale chiarissimo è che i partiti non ci pensano proprio a un intervento che annulli o limiti il fiorire di prepensionamenti ad hoc.

Questi scarni elementi informativi che cosa ci dicono? Che in realtà NON c’è alcun bisogno di sostituire Quota100 con Quota101 o 102 come pure si legge pensino partiti e sindacati. Non ce n’è alcun bisogno e non bisogna ulteriormente aggravare lo sbilancio INPS, perché in realtà il ritorno in vigore della legge Fornero resterà ampiamente aggirato da tutti questi regimi speciali. La battaglia per Quota 101 – 63 anni di età e 38 di contributi – è una bandierina irragionevole.

Anche se, per amor di onestà, devo riconoscere che almeno il ministro Orlando ha dichiarato che a suo giudizio “c’è un’attenzione eccessiva per la flessibilità previdenziale in uscita, prima occupiamoci dei giovani”. E il presidente INPS Tridico, che da quando c’è Draghi ha cambiato musica rispetto agli anni di Conte, ha dovuto riconoscere che la proposta sindacale per uscire da Quota 100 – oltre a Quota101 la proposta più sostenuta è la pensione a tutti purché abbiano 41 anni di contributi, qualunque sia la loro età anagrafica – è da scartate perché costerebbe 4,2 miliardi aggiuntivi il primo anno fino ad arrivare a 9,2 mld l’anno nel 2029. Col che naturalmente Tridico resta comunque non a favore del ripristino della Fornero, indicando invece l’anticipo della sola quota contributiva post-Dini della pensione a 63 anni, e facendo restare invece a 67 anni di età anagrafica il beneficio della quota retributiva, ipotesi che costerebbe comunque molto meno di quelle sindacali in termini di spesa aggiuntiva, cioè secondo la simulazione dei tecnici INPS mezzo miliardo l’anno per iniziare, in crescita fino a 2,4 mld l’anno nel 2029.

Ricordiamo poi un’altra cosa. Lo sbilancio corrente dell’INPS. Nel 2008 lo Stato trasferiva all’INPS dalla fiscalità generale circa 60 miliardi l’anno. Nel pre-Covid eravamo arrivati a oltre 120 miliardi, poi i 44 miliardi di sostegni al reddito con la Covid-CIG in pandemia hanno spinto la cifra nel 2020 a oltre 150 miliardi. E a questo ammontare seguendo i criteri della ragioneria generale dobbiamo aggiungere la spesa assistenziale delle Autonomie e lo 0,8% del PIL per i sussidi alla casa. In totale, il monte totale della spesa previdenza-assistenza al di fuori del canale contributivo di finanziamento ha raggiunto i 150 miliardi annui (ed è un conto al netto dell’esplosione straordinaria COVID-CIG nel 2020, si spera non ricorrente). Mentre la spesa per pensioni sostenute da flussi contributivi è intorno ai 160 miliardi. Quando si profilò Quota 100 Alberto Brambilla – un tempo consigliere di riferimento della segreteria della Lega in materia previdenziale e consigliere del governo prima dell’avvento dell’epoca-Durigon, il parlamentare e sottosegretario leghista ex leader del sindacato UGL a cui si deve la svolta assistenzialista di Salvini dalle pensioni ad Alitalia – Brambilla dicevo si dimise dagli incarichi, sostenendo che così il sistema non poteva reggere. Aveva ragione lui.

Solo che parlarne seriamente in Italia è quasi impossibile. Politica e sindacati ogni volta negano che la spesa previdenziale sia arrivata a superare il 17% del PIL – 4-5 punti sopra la media UE – perché bisogna naturalmente separare assistenza e previdenza. Come se in realtà non fosse sempre la fiscalità generale a coprirne gli sbilanci. E si nega che una spesa sociale così sbilanciata sulle pensioni dreni inevitabilmente risorse che andrebbero invece rivolte ai soggetti deboli, ricolpiti con durezza ulteriore a ogni crisi: cioè giovani, donne, incapienti, lavoratori con contratti a tempo determinato e autonomi. È per questo che abbiamo sempre preferito avere solo politiche passive del lavoro basate sul sistema CIG, invece di politiche attive per formare e ricollocare i lavoratori.

Quota 100 è nata da questo calcolo cinico: meglio prepensionare chi un lavoro ce l’ha, e chiudere un occhio sul fatto che in un sistema a ripartizione ogni mese l’assegno devono provare a pagarglielo i più giovani e precari, che naturalmente non bastano e allora ci pensa lo Stato. Hanno preferito raccontare impunemente che per ogni quotista prepensionato ci sarebbero stati tre assunti più giovani, quando in realtà se ne sono aggiunti 0,45.

Ma i partiti non vogliono solo prepensionare, vogliono abbattere l’aggiornamento automatico dei criteri previdenziali al progressivo aumento dell’attesa di vita della popolazione (a oggi il meccanismo è già congelato a tempo), modificare il rendimento del montante che porta ad assegni bassi in un Paese che anno dopo anno cresce pochissimo. È tutto sbagliato: come lo è stato graduare per troppi decenni il pieno passaggio al sistema contributivo dopo la riforma Dini, come lo è stato l’intervento di Prodi sullo scalone-Maroni.Bisogna pensare a un sistema a capitalizzazione e non più a ripartizione. Bisogna sgravare moltissimo fiscalmente gli accantonamenti volontari da aggiungere a quelli obbligatori, per una vera previdenza complementare diffusa anche tra i lavoratori dipendenti. Senza di questo, continueremo a drenare risorse a favore di pensionati ancora troppo “retributivi”, un drenaggio che impedisce di destinarle ad affrontare la tragedia alle nostre spalle e ignorata, quella del lavoro.

Siamo a neanche il 58% di occupati tra i 15 e 64 anni, rispetto al 68% di media UE e oltre il 75% dei Paesi del nord Europa, siamo solo al 49% di occupazione femminile contro il 63% media UE e 75% del Nord Europa, abbiamo 2,2 milioni di giovani che né studiano né lavorano. In Italia i cittadini in età da lavoro sono circa 36,5 milioni ma quelli che lavorano – almeno quelli noti allo Stato – sono 22,5 milioni, che fanno gli altri 14 milioni?

È molto meglio destinare molte più risorse della spesa sociale a formazione e rioccupabilità che alle pensioni adottando un modello come quello delle riforme Hartz tedesche, per un ammortizzatore sociale universale e politiche attive del lavoro su base paritaria tra soggetti pubblici e privati accreditati, che continuare a spendere altri miliardi per i prepensionati.

Oscar Giannino

2 thoughts on “Basta prepensionare. I numeri dicono che si deve tornare alla Fornero, in nome dei giovani”

  1. Nel ringraziarla per l’editoriale, caro Oscar, premetto che commenterò probabilmente off topic. Non perché non condivida l’analisi e le proposte, che essendo sensate e supportate dai dati, saranno temo bellamente ignorate. ma perché francamente, da nato negli anni 80, il tema mi da la nausea ogni volta che lo sento posto nei termini tipici del dibattito pubblico di politici e sindacati. vedere questo susseguirsi di proposte farlocce dal mio punto di vista di uno che resterà col cerino in mano da veramente fastidio. Ora, da expat in Germania la prospettiva e´un po´diversa dato che gli accordi europei prevedono, se ho capito bene, che siano riconosciuti gli anni di contributi tra i vari sistemi pensionistici, ma non trasferiti fondi (altrimenti, se dovessi aspettare inps…). cercando di finire con una nota un po`piú ottimistica, sarebbe forse troppo sognare che lo stato usasse una parte delle risorse di cui discute ora per dare piccoli incentivi alle pensioni integrative? senza voler mitizzare la germania, qui ho scoperto forme di pensione integrative completamente private ma basate su schemi statali che prevedono un piccolo contributo statale ai versamenti del singolo e fiscalitá agevolata (deduzione del contributo annuo). perché non pensarci, soprattutto per i giovani che riceveranno dallo stato sempre meno? sará che si teme l’inziativa dei cattivi capitalisti privati e di un libero mercato?

  2. La riforma delle pensioni arriverà, e sarà drastica, quando in pensione ci dovranno andare i millennial.
    così dopo 20 anni passati tra un lavoro precario a 400€/mese e l’altro, intervallati da mesi di vuoto, dopo aver pagato per 50 anni le pensioni a chi veniva prima, dopo aver vissuto negli anni di vuoto dell’italia e della UE, dopo essere diventati le badanti della Cina, come premio finale avranno l’età pensionabile portata a 85 anni e 55 di contributi (non figurativi).

    una generazione fottuta da tutte le altre, precedenti e successive.

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